Il profilo puro del cranio senza capelli rende più intenso lo sguardo. La giacca di pelle nera maschera qualche chilo di troppo sulla pancia, “che si vedono subito essendo ascrivibile ai tappi, appena 1 metro e 62”, ride. Sotto però si celano addominali di ferro coltivati in una gioventù da ginnasta “che faceva gare regionali”, prima di essere rapito da altre passioni e carriere. E per fare l’artista servono, altroché.
Addominali, cioè ombelico. Secondo l’anatomia yogica è lì, nel centro del corpo, che si genera la forza di volontà , è da lì che nasce la nostra vera voce, quella connessa al nostro sé più profondo. È li che si sostanzia l’impegno a cercare ed esprimere se stessi. Per Nicola Di Caprio, artista visivo con un passato (e presente) di batterista, sono una fonte che risveglia con poche ore di pesi e piegamenti in palestra, cui attingere per “resistere” in un mondo, quello dell’arte contemporanea ora, quello della musica suonata prima, non sempre generoso ed accogliente. Anzi. Ma che ora ne riconosce e premia la maturità .
Piano A. La musica. La “folgorazione sulla via di Damasco” arriva a 13 anni, quando un amico gli fa sentire “su un piccolo mangianastri veramente molto low fy Made in Japan, storico album live dei Deep Purple”. Un punto di non ritorno, che lo catapulta dietro tamburi e piatti, bacchette alla mano. Intanto frequenta la scuola d’arte, “disegnavo bene” e si familiarizza con l’arte moderna, ormai dei classici: gli impressionisti, Picasso, Kandijski. Ed è per seguire la m0sica che Nicola Di Caprio affronta l’avventura americana, 1984. Nelle forme “di immigrato di base, illegale, tre anni a studiare e lavorare in una fabbrica di manifatture metalliche e cose così per mantenermi”. Nel frattempo suona con diversi gruppi e si guarda intorno.
Prima l’avventura degli Avion Travel, di cui è stato il primo batterista, ma senza grande popolarità . Musica suonata sui palchi anche con altre band, “ma un po’ da gregario, io ero quello che faticava dietro la batteria, non il front man, il chitarrista, il cantante, cui arrivavano mediamente applausi e mutandine delle fan”. Ride di nuovo.
Piano B. Cioè l’alternativa. Un progetto di vita di riserva, se le cose non dovessero andare bene. Improvvisamente, qualche mese fa, chiacchierando con Marco Cingolani e Nicola Verlato nel loro studio di Brooklyn, Nicola Di Caprio afferma: “Io sono già nel piano B!”. E proprio dal piano B stanno arrivando le soddisfazioni da front man: qualche riconoscimento, mostre, articoli, intanto, le mutandine delle fan non sembrano più tanto necessarie.
Le arti visive. Fotografia, installazioni, performance, gallerie. Torna utile l’aver appreso l’arte, negli anni del liceo, pur avendola messa da parte, salvo poi non riscoprirla proprio negli USA con studi universitari di grafica pubblicitaria e pittura.
Folgorazione 2. “Io vengo da Caserta, lì a cavallo tra anni 70 e 80, che pure erano anni super fecondi per l’arte contemporanea, straordinari, il massimo della modernità era Picasso. Così vado al Moma, a New York nel 1982, e a un tratto vedo una cosa mai vista prima. Una tela bianca, nuda, con un taglio in mezzo. Resto veramente fulminato. Quel gesto rivoluzionario faceva scomparire tutti gli altri. Mi avvicino, leggo il nome: Fontana, un italiano!!”. Nicola Di Caprio si scrolla definitivamente di dosso la sensazione di essere un provinciale. Da li in poi tenta la sua avventura artistica.
Fusione. Il successo arriva quando Piano A e Piano B si fondono. La terza via. Quando la musica penetra nelle immagini. Come raccontano i lavori nell’antologica che trovate nella Bazart web gallery. La svolta, riconosce oggi è “una mostra a Caserta, circa dieci anni fa, con un’installazione intitolata Heartbeat Cuorezero, in cui al lavoro a parete si accompagnava un tamburo della batteria sospeso al soffitto nel quale era nascosto uno speaker che riproduceva un giro di batteria continuo”, un loop coinvolgente e totalizzante, come il battito cardiaco del titolo.
Nicola Di Caprio riconosce l’immensa libertà che l’artista visivo si è conquistato: “Oggi se voglio posso esporre in una galleria dei suoni, usare le parole, i testi, oltre alle immagini, statiche o in movimento. Tutto è possibile”. Un peer to peer tra le arti, fecondo e libero, lo stesso che nutre il metodo di comunicazione Bazar.
Titoli. La fusione tra piano A e piano B, la terza via, trova vera espressione nella scelta dei titoli. “È un momento importante del mio processo creativo. Spesso il titolo c’è addirittura prima dell’opera, è la sostanza intorno a cui si costruisce l’opera, dopo. Tutto, ogni momento della vita, ogni viaggio, ogni esperienza nutrono questa progettualità costante. E come per il titolo di un brano musicale, il titolo dell’opera in un certo senso deve anticipare l'essenza del pezzo”. Cita Nanni Moretti: “Le parole sono importanti!!!!”, ride ancora.
Così un soggiorno da amici a Kent Avenue, Brooklyn, da il titolo alla foto Kent do it, evocazione sonora di “Can’t do it”, non posso farlo, ma rende omaggio anche al luogo dove il lavoro è nato (esposto nella mostra Sound and Vision a Perugia). Mentre Half Side if the Face cita The dark side of the moon, lombrosiano ritratto con mezza faccia di David Gilmour e mezza di Roger Waters, e ribadisce fin dal titolo l’omaggio agli amati Pink Floyd.
Ma non solo musica. Nothing personal, fino al 30 giugno scorso alla Galleria Velan di Torino, “il titolo in questo caso rievoca le atmosfere di quei grandiosi film di mafia italo-americani che adoro. Succedono cose terribili: tradimenti, infamità , sofferenze, che stravolgono la vita, ma su tutto prevale il senso che non è una questione personale, che le cose accadono, anche le più terribili, semplicemente perché così deve essere”. Così è la fiction. Ma in fondo “anche una qualsiasi altra vita professionale ci sono amicizie che finiscono, delusioni, calci in culo, scortesie che non ti aspetti. Niente di personale, in realtà ”, nota, una vena appena di malinconia nella voce.
Attivi creativi & relax. Un “giro di batteria, bastano pochi minuti”, e Nicola scarica tensioni accumulate, fatiche, contrarietà . Ma il relax vero arriva tra i fornelli, “con sotto la musica giusta, diciamo jazz post-bop contemporary, Pat Metheny o Herbie Hancock, per esempio”. Contemporaneo con radici solide, come il menu per conquistare il cuore di una donna o, se non proprio quello, certamente quello degli amici che qui propone: spaghetti “a vvòngole”, pronunciati con la o aperta dei napoletani che dà subito calore, oppure una “paella, mia passione, mi sono fatto insegnare tutti i segreti a Valencia e ho anche comprato la vera pa(d)ella”, poi “un cartoccio di triglie, scampi, vongole e polipetti aromatizzato con spezie e vino bianco. Su tutto Greco di Tufo, Mastrobernardino o Di Marzo, indimenticabile. E una mousse al cioccolato con marsala siciliano”.
Chissà se sua moglie l’ha conquistata così. Vero è che lei, grata, “fino all’arrivo della lavapiatti si prestava volentieri a rigovernare”.
Cristiana Scoppa