BAZAR SEGNALA
PALAZZO YACOUBIAN – ‘Ala Al-Aswani (Feltrinelli. 215 pp., 16 euro)
“O ‘icchecè in Medioriente!?”
gridava già ventanni fa Roberto Benigni, facendo sbellicare gli
spettatori di mezza Italia. Nel frattempo laggiù le cose si sono
ingarbugliate ulteriormente. Così come la nostra ignoranza di
osservatori occidentali. Oggi, che non è più tempo di restare
indifferenti, ogni mezzo per saperne di più è ben accetto. E allora
cosa di meglio che il libro più letto degli ultimi anni nel mondo arabo
(dopo il Corano, of course)? Tanto più che si tratta di un romanzo che
si propone di raccontare l’odierna società egiziana. Senza sconti per
nessuno, in particolare per le degenerazioni del potere.
Al centro
un edificio, il Palazzo Yacoubian, modernissima struttura eretta negli
anni '30 inseguendo lo stile europeo. Con la rivoluzione, che porta
l’Egitto a una chiusura verso l’esterno, inizia la sua decadenza. I
personaggi del libro ruotano tutti attorno al palazzo: vi abitano, vi
lavorano o sono legati in qualche modo a un condomino. Ci sono vicende
esemplari: come quella del figlio del portiere. Primo della classe,
viene respinto al concorso per ufficiali di polizia a causa del basso
rango familiare. Non riuscendo a farsene una ragione, dopo un vano
tentativo di ottenere giustizia ricorrendo al Presidente della
Repubblica, si rifugia nell’integralismo islamico fino all’escalation a
kamikaze.
O
quella della corruzione politica: per cui un candidato paga un’eminenza
grigia per avere la certezza di essere eletto attraverso la promessa di
versare nelle casse del partito il 25% di una grande commessa. Per non
parlare della corruzione morale: la prostituzione - soprattutto
femminile, ma anche quella maschile negli ambienti gay – come unica
forma di riscatto, quando non di sopravvivenza tout court, dalla duplice condizione di povero e ignorante.
Storie
che si intrecciano alla perfezione, interrotte un attimo prima
dell’acme (secondo il modello de Le mille e una notte), alcune intrise
di un erotismo lussureggiante. Ammirevole la bravura dell’autore,
dentista con studio nel Palazzo Yacoubian.
Colonna sonora: MAU MAU Dea
TALENT SCOUTING
PUGNI – Pietro Grossi (Sellerio. 188 pp., 12 euro)
Se non ci si fosse chiamato il capolavoro di Antonio Moresco,
il titolo più azzeccato per questo libro sarebbe stato Gli esordi.
Perché tali sono i tre racconti del giovane Pietro Grossi: esordi
nell’età adulta. O congedi dall’adolescenza. Ma anche Pugni, perché gli
eventi che concretizzano questi esordi, e determinano i relativi
congedi, suonano per i deutero-protagonisti come altrettanti pugni
nello stomaco. Come quelli che si dispensano e incassano nel primo
intensissimo racconto, Boxe. Dove c’è un ragazzo, figlio e studente
modello (persino di pianoforte), che un giorno sente il bisogno di
cimentarsi sul ring – un luogo in cui “nessuno poteva scappare, né te
né gli altri – assumendo il nome di Ballerino.
Nonostante
l’evidente talento, non può combattere causa divieto materno, cui
contravverrà un’unica volta per affrontare la Capra, sordomuto
dall’atteggiamento mentale e il fisico di una roccia. La tensione, il
pathos, crescono pagina dopo pagina. Fino al match che si legge in
preda a una feroce emozione.
In
Cavalli tutt’altra ambientazione - tra la campagna e il west -
straniante, quasi senza tempo, con l’aura della storia archetipica. E’
la storia di due fratelli cui il padre affida due cavalli: gesto
simbolico a sancire la necessità che si rendano indipendenti. Uno se ne
serve per frequentare la città, l’altro per consolidarsi nell’ambiente
avito.
L’ultimo - La scimmia - pur originato da uno spunto
originale, è il racconto più debole: il miglior amico del protagonista,
quello che gli era sempre apparso come più fortunato di lui,
improvvisamente si metta a imitare il comportamento di una scimmia e
non riesce più a smettere.
Insomma si sarà capito che si tratta di
Pugni che scardinano il lettore: il primo è il colpo che lo stordisce,
il secondo quello che lo butta al tappeto, il terzo quello che appena
rialzatosi ne decreta il k.o. definitivo (ma a quel punto ci voleva
poco).
Colonna sonora: MARIO VENUTI Magneti
PENSARE LEGGENDO
VOLEVO DIRTI CHE E’ LEI CHE GUARDA TE – Paolo Landi (Bompiani. 75 pp., 6 euro)
Ci avevate mai pensato che la frase “I bambini non vanno lasciati soli davanti alla tv”,
dietro l’apparente sensibilità pedagogica, cela una ben precisa
strategia di marketing? Infatti alla televisione interessano gli
introiti pubblicitari e a questo scopo un bambino solo davanti allo
schermo vale meno che lo stesso bambino con accanto il papà e la mamma.
A rivelarcelo è l’autore di questo prezioso libretto, che se saputo
proporre in modo efficace ai naturali destinatari – i bambini - può
diventare un valido alleato di genitori e insegnanti, sempre più
disperati di fronte ai risultati della videodipendenza infantile.
L’ideale sarebbe depositarlo in vari punti della casa e, una volta
conquistato un po’ d’interesse nel bambino, dichiarare che in realtà si
tratta di una lettura “da grandi”, fingendosi preoccupati che possa
rivelarsi troppo noiosa per lui: mica divertente come quei programmi
televisivi che guarda. Tuttavia, un giorno che proprio non sapesse cosa
fare, potrebbe dargli un’occhiata da solo e poi, se proprio dovesse
sembrargli interessante, leggerlo insieme (questa ultima parte recitata
con fare cospiratorio).
Rivolgendosi direttamente al bambino con
l’artificio del “tu” confidenziale, Paolo Landi, attraverso una sorta
di itinerario iniziatico, accompagna il baby lettore verso la
consapevolezza che i programmi televisivi sono fatti essenzialmente per
accompagnare gli spot e non viceversa. Di più: che chi fa la
televisione vuole che lui compri lo zainetto di una certa marca e mangi
proprio quella merendina. Forse è solo una goccia in uno stagno, ma a
volte anche gli stagni esondano.
Colonna sonora: URSULA RUCKER Ma’at mama
UPPER READERS
IL BAMBINO INCANTATO – Rachid O. (Playground. 122 pp., 11 euro)
Lo strano caso di Rachid O.
Uno cosa s’aspetta dall’educazione sentimentale di un omosessuale
cresciuto in Marocco? Un surplus di sofferenza, tra inenarrabili
soprusi e il rifiuto incondizionato della diversità. E invece –
sorpresa! – niente di tutto questo. Per esempio, uno si immagina un
padre assente. Oppure autoritario. O almeno isterico, minacciata come
avverte la propria competenza di trasmettitore di virilità. Macché: a
lui è dedicato l’ultimo capitoletto dai toni elegiaci fin dal titolo
(“Mio padre, il mio eroe”). Insomma a stupire, inchiodando il lettore
sulla pagina, è la levità della voce narrante che, con sguardo
trasognato, pare ripercorrere il film della propria vita con la
partecipazione dello spettatore entusiasta.
Ancora infante Rachid
fa capolino tra le gonne familiari, in preda a una crescente
eccitazione, perché le donne conversando rivelano particolari intimi
dei loro maschi. La vocazione ad amare uomini – e in particolare uomini molto più grandi di lui - è precoce:
a 13 anni si innamora, ricambiato, del suo professore di arabo. Poi, a
15, è la volta del 40enne Antoine, un francese con figli a carico.
Infine si trasferisce in Francia, dove determinante è l’apprendimento
della lingua, che gli aprirà nuovi orizzonti: letterari soprattutto.
Oggi, che i suoi libri sono best-seller, non ha smesso i panni del
bambino incantato dalle cose della vita.
Purtroppo c’è un neo, in
questa storia edificante. Un conto che non torna. Nonostante le pagine
allegre e toccanti in cui racconta con orgoglio di sentirsi musulmano,
continua a essere costretto a un parziale anonimato. Speriamo venga
presto il giorno in cui gli sarà possibile firmarsi per esteso.
Colonna sonora: JACK JOHNSON Sing-a-longs and lullabies for the film “Curious George”
OLD FASHION
LA CASA VUOTA – Willem Frederik Hermans (BUR. 91 pp., 7 euro)
Dio mio, che grande questo piccolo libro!
E che scoperta l’olandese Hermans: alzi la mano chi lo conosceva.
Eppure - come ci spiega nella postfazione il più noto tra gli
scrittori suoi connazionali, Cees Nooteboom – ha pubblicato moltissimo,
essendo stato forse il massimo autore espresso nel ‘900 dai Paesi Bassi.
Questo
romanzo breve, ultimato nel 1950, è sorprendente sotto più aspetti.
Innanzitutto per il coraggio. Da poco è terminata la guerra nazista,
che ha seminato ovunque distruzione e decimato popolazioni. Per
reazione fisiologica nasce il neorealismo: una letteratura edificante
che comporta una rappresentazione manichea dei buoni e dei cattivi. E
cosa ti va a raccontare Hermans? Una storia da cui traspare che l’assurdità del conflitto,
la sua negazione di ogni forma di civiltà, rende tutti uguali: spietati
delinquenti. Il protagonista - di cui non viene mai indicato il nome,
così come non viene nominato il paese in cui si svolgono i fatti, a
rendere la vicenda ancor più emblematica – è un partigiano allo sbando,
che sembra non avere nessuna morale. Il suo unico scopo è mettersi in
salvo. E’ misantropo, fino a vagheggiare la possibilità di rinchiudersi
per sempre nella casa vuota in cui ha trovato ospitalità. Ma: prima
arrivano degli ufficiali tedeschi, con i quali finge di essere il
figlio del proprietario della casa. Poi la coppia di veri residenti.
Infine spunta qualcuno da una stanza misteriosamente rimasta chiusa.
Inutile
dire di più, per non guastare l’accumulo di tensione che porta a un
finale sconvolgente, privo di redenzione catartica. Del resto, Hermans
si era dato il compito di “flagellare i suoi lettori con la
verità”.
Colonna sonora: MORISSEY Ringleader of the tormentors
BAZAR COLLECTION
DELIRI, DESIDERI E DISTORSIONI – Lester Bangs (minimum fax. 435 pp., 16,50 euro)
E
due! Esce in Italia il secondo libro contenente gli articoli del
giornalista musicale Lester Bangs e tu sei lì di fronte al pc che ti
chiedi: “Avendo già segnalato il primo, è giusto sottrarre visibilità a qualche altro libro meritevole?”
Quando accade l’inaudito. Ecco rimbalzare dallo schermo un Lester dal
ghigno mefistofelico che, in un improbabile italiano, starnazza una
litania: “mangiarane superfichi attuano un blitz transatlantico”.
Guardi la birretta bevuta a metà e capisci che l’unica cosa da fare è
parlarne di nuovo. E poi ancora, se dovesse uscirne un terzo.
Il fatto è che lui incarna il sublime infantilismo dell’appassionato di musica rock.
Quello dell’impiegato frustrato che, rincasando, dopo 5 minuti ha
litigato con moglie e figli, si chiude a chiave in camera e, cuffie al
massimo, sfodera la racchetta da tennis mimando un assolo di chitarra.
O quello del lettore compulsivo di riviste musicali, che febbrilmente
ne aspetta l’uscita in edicola, per vedere se hanno pubblicato la sua
invettiva contro X - reo di essere diventato troppo commerciale - o la
lamentazione perché non si dà conto dell’esaltante combo groenlandese
che conosce solo lui.
Perché Lester Bangs è l’espressione del
capriccio umorale, della smargiassata di chi sarebbe pronto a battersi
a duello per sostenere la fondatezza di una sua idiosincrasia e il
giorno dopo, quale ne fosse stato l’esito, presentarsi niente affatto
pentito. In altre parole, Lester Bangs è stato fino in fondo quello che
ogni recensore vorrebbe avere il coraggio di essere. E se le sue cose
sono rimaste – impagabile qui l’intervista impossibile a Jimi Hendrix -
è perché le ha scritte con uno stile inimitabile. Pena scimmiottarlo.
Colonna sonora: PRINCE 3121