Da cosa si riconosce un buon regista? Dalle trappole che scampa: il sentimentalismo, il buon senso, l’eccesso simbolico…
E
un ottimo regista? Dal modo in cui si getta a capofitto nelle stesse
trappole, cercando la via per sgombrarle dalle incrostazioni retoriche.
Definizione che si attaglia perfettamente ai fratelli Dardenne che, in
ogni nuovo film, corrono il rischio e lo scampano.
Anche L’enfant racconta una storia edificante, un conte morale quasi da romanzo ottocentesco:
quello di un giovane delinquente che, diventato padre, vende, senza
grandi turbamenti, il figlio. Alla fine lo scapestrato, dopo essersi
invischiato nell’atto più abominevole che un uomo possa compiere, viene
visitato dalla coscienza e si ravvede.
La sfida dei Dardenne è tutta qua, farci sorbire una sana zuppa moralizzatrice. Ci
riescono grazie alla fede nel realismo e ad una regia che non lascia
nulla al caso. Perché contrariamente alle apparenze, uno stile nudo che
assomiglia molto al reportage, l’attenzione per la forma e la messa in
scena è rigorosa fino alla mania.
Se i Dardenne lasciano le porte
aperte anche all’imprevisto, il loro metodo passa attraverso delle
scelte estetiche molto precise: camera a spalla, inquadrature che si
concentrano soprattutto sul volto dello strepitoso protagonista,
Jeremie Renier, un respiro narrativo che lascia grande spazio a ciò che
è fuori campo e un lavoro sul suono fondamentale, con un senso
istintivo per la durata, essenziale per mantenere la tensione della
storia e dello spettatore.
Infine, elemento importantissimo, una direzione degli attori fisica, preparata fin da mesi prima della lavorazione sul set.
C’è poi, ne L’enfant, una scena d’azione come non se ne sono mai viste
nel cinema dei Dardenne, in cui il protagonista e un giovanissimo
compagno di furti si gettano nella Mosella per cercare di scappare alla
polizia e rischiano di morire di freddo.
La scena è uno vero shock
emotivo e sovrasta la semplice funzione narrativa, perché rivela allo
spettatore il senso indicibile del film, il suo nucleo sferzante.
Quante volte al cinema si “sente” la materia di cui sono fatti i nostri
corpi? Fosse solo per questi momenti di “verità” rosselliniana, i
Dardenne meritano stima e rispetto.
L’enfant di Luc e Jean-Pierre Dardenne, in sala dal 7 dicembre
IL NOSTRO NATALE
Non c’è tendenza, direzione o moda che tenga, il Natale, almeno a osservare il fronte italiano, è il periodo più conservatore e reazionario dell’anno. Poche
uscite coraggiose, molti prodotti di confezione, formule e nomi che
garantiscono sicurezza e tepore agli spettatori che vanno al cinema una
volta l’anno. Così, giusto dal 16 dicembre, si affronteranno
le commedie natalizie da record: quella leggerina e sentimentale di
Pieraccioni, Ti amo in tutte le lingue del mondo, e quella grassa e sboccata di Natale a Miami della coppia Boldi e De Sica. Da Hollywood pioverà qualche blockbuster di pura action grafica
(Mr. e Mrs. Smith), un melodramma di presunzione storico-esotica
(Memorie di una Geisha, il Giappone ricostruito in California da Rob
Marshall, quello di Chicago), drammi ad alto tasso lacrimevole e
religioso (Bee Season), una commedia cinefila (Vizi di famiglia) e un
horror di magazzino (Il nascondiglio del diavolo). A guarnire la torta, si affolla la valanga zuccherosa di favole in carne ed ossa
(Joyeux Noel, Le cronache di Narnia) o animate (Kirikù e gli animali
selvaggi, Chicken Little - Amici per le penne e, per la befana, P3K -
Pinocchio 3000), sulla carta meno audaci e sperimentali di alcune
sorprese delle scorse stagioni.
A chi non stravede per il talento di Peter Jackson,
che dopo l’ubriacatura di oscar e consensi al Signore degli anelli, si
avvia verso un altro trionfo planetario con il suo remake di King Kong, rimangono un pugno di film di vario interesse. Anche se eccede in ardore neorealistico, Shanghai Dreams di Wang Xiaoshuai
merita una visita: è il drammatico ritratto di una famiglia cinese in
pieni anni sesanta, massacrata da incomprensioni generazionali e
stravolgimenti storici. Me and you and Everyone we Know, invece, potrebbe essere un il film indipendente dell’anno. Sceneggiato, interpretato e diretto da Miranda July, ha collezionato premi e riconoscimenti ovunque, con una love story lieve e malinconica. The Door in the Floor, tratto da un romanzo di John Irving, vale soltanto per il gusto di rivedere Jeff Bridges al cinema. Da buon ultimo resta il nostro film di Natale, History of Violence (7 dicembre) di David Cronenberg,
che sotto un apparente fattura classica, è una vera e propria
decostruzione del cinema americano di genere: la rappresentazione della
violenza al cinema, fatta a pezzi dal sarcasmo di un maestro.
L’ULTIMO UOMO
Intervista a Jim Jarmusch
Nato
nel 1953 a Okron, Ohio, Jim Jarmusch ha studiato cinema alla New York
University, dove è stato assistente alla regia di Nicholas
Ray e
Wim Wenders in Nick’s Movie (1980). Permanent Vacation (1980), il suo
saggio di fine corso, è la prova d’orchestra per Stranger than Paradise
(1984), il film che lo ha rivelato al pubblico dei festival. Girato in
bianco e nero, questo road-movie è già zeppo dello humour spaesato,
della raffinatezza contaminatoria (la colonna sonora mescola Screamin’
Jay Hawkins e Bartók) e dell’economia visiva che caratterizzeranno la
sua opera a venire. La commedia Down by Law (1986), più accessibile, ha
mostrato quanto possa essere esplosivo Benigni se diretto da un regista
malinconico, mentre Mystery Train (1989), che racconta tre storie
incrociate nello stesso albergo, e Tassisti di notte (1992), cinque
storie in cinque città diverse, hanno dichiarato l’interesse di
Jarmusch per la sperimentazione narrativa. Più recentemente, il western
Dead Man (1995) e il gangster/samurai Ghost Dog (1999) sono tentativi
ambiziosi e riusciti di piegare le strutture dei generi alla
riflessione filosofica. Ma Jarmusch ha trovato anche il tempo per
progetti minori come il bel documentario su Neil Young (Year of the
Horse, 1997) e la collezione di corti Coffee and Cigarettes (2002).
Broken Flowers, che ha vinto il Premio della Giuria a Cannes 2005, è la
sua ultima, splendida, miniatura d’esistenzialismo pop, corroborata da
un maiuscolo Bill Murray.
Ho letto che il progetto di Broken Flowers ha avuto una lunga gestazione…
Sì,
7 anni fa Sara Driver (regista newyorchese, ndr) e un amico mi avevano
suggerito l’idea: un uomo, che in passato aveva avuto molte amanti, un
giorno riceve una lettera anonima da una di loro e apprende di avere un
figlio. In genere ho l’abitudine di far sedimentare a lungo una storia
prima di affrontarla in un film. Nel 2001 ho scritto invece una
sceneggiatura per Bill Murray e ho cominciato a cercare i soldi ma a un
passo dalla realizzazione lo script non mi piaceva più. A quel punto è
riemersa la sceneggiatura di Sara che mi ha tirato fuori dall’impasse.
A parte il piacere di lavorare con Bill, la cosa che mi piace di Broken
Flowers è che ho potuto lavorare con bravissime attrici tra i 40 e i 50
anni.
Cosa ti ha incuriosito di più: l’esplorazione di un personaggio alla deriva o il tema della paternità?
Il
tema della paternità non è per me molto importante. E’ un mezzo più che
un fine. Broken Flowers non è un film sulla paternità o su un mistero
da risolvere, è prima di tutto il ritratto di un personaggio. In genere
io non so perché faccio delle cose, perché decido di fare un film,
scelgo un soggetto o uno stile. In generale quando giro un film, amo il
mio personaggio fin dal principio. In questo caso è stato strano, mi
sentivo molto distante dal personaggio di Bill, non mi stava simpatico.
Ho imparato ad amarlo con il tempo, mentre giravo.
Anche in Broken Flowers c’è una continua mescolanza di umorismo e malinconia, un tocco che è proverbialmente “jarmuschiano”…
Quando
scrivo, le mie storie mi sembrano sempre molto serie. Poi, durante le
riprese si incrostano di umorismo. Probabilmente fa parte della mia
natura più profonda, ho bisogno di divertirmi sennò la vita mi
sembrerebbe invivibile. In Broken Flowers parte dell’umorismo ha
origine dal corpo di Bill ed è una cosa che non puoi scrivere. Ho
perfino cercato di limitare le sue improvvisazioni, altrimenti il film
sarebbe stato anche più divertente. Ma un umorismo esplosivo avrebbe
alterato il tono malinconico della storia. Per esempio la scena in cui
Bill mangia le carote non c’era nella sceneggiatura, l’ha improvvisata
in una sola inquadratura. Non è una gag esilarante ma evidenzia i
piccoli tocchi puramente fisici che Bill apporta sempre nelle sue
interpretazioni. Il viso di Bill è talmente pieno d’umanità che si
simpatizza subito con lui. In lui c’è una contraddizione interessante e
unica tra malinconia e malizia.
Broken Flowers di Jim Jarmusch, in sala dal 2 dicembre
Un film recente (2004) da recuperare assolutamente. Adattando per la prima volta un romanzo, il best-seller fiammeggiante di Scott Heim, l’indipendente americano Gregg Araki ha abbandonato le esasperazioni trash dei suoi film precedenti e, con Mysterious Skin, ha realizzato il suo capolavoro: un racconto di dolcezza e di dolore, scabro e luminoso. Senza i compiacimenti e le provocazioni rococò di Nowhere o Doom Generation, Mysterious Skin mostra le ferite non rimarginabili provocate su due adolescenti dell’America profonda dalla violenza sessuale subita da bambini. Sia che si confronti con l’abiezione o si abbandoni all’onirismo poetico in cui si rifugiano le vittime dell’abominevole, il film resta sempre della stessa intensità e delicatezza, sorretto da una regia d’eleganza quasi classica. L’edizione è bella anche se avara di extra.
Mysterious Skin (2004), di Gregg Araki, Sony Pictures Home Entertainment, € 23,49.