L’ANIMAZIONE AL POTERE
Wallace & Gromit
– La maledizione del coniglio
mannaro è l’ennesima testimonianza della brillante stagione
del cinema d’animazione. Rivolto ad un pubblico universale, è ormai la vera
fucina di opere ancora capaci di divertire e meravigliare.
Nel 1991, grandi e
piccini scoprivano in Una fantastica gita due tipi destinati a lasciare il
segno: Gromit, un cane appassionato di lavoro a
maglia e Wallace, un inventore goloso di
formaggio, si lanciavano all’assalto della luna, diventata per
l’occasione una monumentale riserva di latticini.
Incantato da questi 2
strepitosi personaggi in plastilina e colpito da tanto virtuosismo del
dettaglio, il pubblico ne ha subito invocato nuove avventure. Nick Park, il geniale creatore di questo
universo sghembo e molto british, non si è fatto pregare e, aiutato dai suoi
collaboratori dello studio inglese della Aardman, ha sfornato altri due
mediometraggi della stessa qualità: I pantaloni sbagliati (1993) e
Una tosatura perfetta (1996), in cui i 2 compari erano protagonisti di
acrobazie degne dei migliori feuilletons 800...eschi.
Il successo
internazionale consente a Park e alla Aardman di sfondare sul mercato americano
e di realizzare Galline in fuga
(2000), prodotto dalla DreamWorks di Spielberg, una rilettura
“da pollaio” de La grande fuga
(1963) di John Sturges, senza Wallace & Gromit ma toccato dallo
stesso estro inventivo e da un approccio parodistico di grande finezza.
Nel
2003 i finanziatori americani offrono finalmente a Nick Park la possibilità di
lanciare le sue due creature in un’avventura estesa e La maledizione del
coniglio mannaro è la prova che la freschezza delle origini non è stata
intaccata dalla proliferazione dei mezzi e dalla pressione “industriale”.
Il primo piacere nasce dal riconoscimento e dalla sorpresa. Ritrovare
intatto questo mondo, un’Inghilterra eterna e sfasata, produce una specie di
gIOia inFANTIle.
E’ tutto di nuovo lì: le piccole case in mattoni bene allineate, con i giardini
d’ortaggi sul retro, attorniate da un’immensa foresta. Dentro un quadro così
quotidiano, anche l’insolito diventa normalità. Il minimo dettaglio di una
strada o di un interno sintetizza magnificamente lo spazio immaginario e
convince il nostro sguardo. Bisognerebbe fermare ciascuna inquadratura per
esplorare la ricchezza della scenografia, ma la profusione è là soltanto per
farsi dimenticare. Partecipa alla dinamica dell’insieme, alla velocità
dell’azione, in altre parole dona la vita a un mondo artificiale.
Ed è
questa impressione di vivacità, di coerenza che imprime la spinta a tutto il
resto, perché la perfezione
tecnica, servita da una sceneggiatura ben calibrata, riesce a trasformarsi in
una poesia ingenua ed eccentrica. Un’equazione semplice che il cinema
fantasy, abbagliato dalla scorciatoia della computer graphic, sembra aver
dimenticato.
Come in ciascuna delle avventure di Wallace & Gromit,
all’attenzione per la dimensione familiare si aggiunge l’esuberanza
dell’inatteso. Che scaturisce dall’invenzione visiva – grazie alla quale i
conigli possono volare e un luna park diventa lo scenario per uno straordinario
inseguimento tra cani – e dall’intrigo, un’inversione burlesca e grottesca dei
film del terrore. In questa generosa abbondanza, l’umorismo delle immagini e i
giochi di parole dei dialoghi si nutrono reciprocamente e non esitano, per una
volta, a osare il lazzo e la salacità grossolana. Benché di registri diversi, le
risate prodotte da La maledizione del coniglio mannaro sono semplici e franche.
Umile, il film ha l’eleganza di non esibire mai la sua grande sofisticatezza.
Gli spiriti malinconici che si colpevolizzeranno per essersi sganasciati
– non si può che soccombere a Wallace & Gromit - cercheranno forse la satira
sociale sotto la farsa. Sottolineeranno l’ambiguità dei britannici capaci,
quando vengono minacciate le loro proprietà, di trasformarsi in un popolo
aggressivo e sanguinario. Ma il sarcasmo si risolve in un simpatico girotondo
con le convenzioni: sembra una divertita caricatura dei luoghi comuni della
fiction popolare inglese più che una critica reale. Di fronte alle nuove
peripezie di Wallace & Gromit bisogna semplicemente guardare, abbandonarsi
al ritmo e ad una certa meraviglia. Esito che, di questi tempi, è totalmente
rivoluzionario.
Wallace & Gromit – La maledizione del
coniglio mannaro di Nick Park et Steve Box (in sala dal 3
marzo)
MOreTTI e Gli ALTri NEL pAEsE DEL CaiMANO
MarZo, se non ci saranno slittamenti o ostruzioni
politiche dell’ultima ora, sarà il mese de IL
CAIMANO, nuovo film di NaNni MorETti
(uscita prevista il 24 marzo) e finalmente del cinema
italiano.
Ispirato alla figura di Berlusconi (l’epiteto si deve a Franco
Cordero che così appellò il premier in un articolo su La Repubblica), Il caimano
sarà – come ha dichiarato Moretti citando il Francesco Rosi de Le mani sulla
città – un film che si inserisce nella tradizione del cinema d’impegno civile
italiano. Al solito, Moretti si è cautelato da rivelazioni preventive e ha
imposto agli attori il più stretto riserbo sulla trama. Le scarse indiscrezioni
parlano di un film nel film su Silvio Berlusconi e sull’Italia contemporanea.
Un’opera destinata a suscitare
polemiche e discussioni sia per la sua dichiarata urgenza
politica, sia per il possibile, e pericoloso (Bush ha vinto
le elezioni), parallelo con Fahrenheit 11/9 di Michael Moore.
Nel
cast figurano Silvio Orlando, Michele Placido, Margherita Buy e Jerzy Stuhr,
attore amato da Krzysztof Kieslowski.
Oltre che per Moretti, c’è molta
attesa anche per “N.” - Napoleone, altra opera che promette di essere
una riflessione ironica sul
cinismo del potere. Alla regia c’è PaOlo ViRZì, uno
dei più rispettati autori di commedie, alle prese con il suo primo film in
costume. Tratto da un romanzo di Ernesto
Ferrero, il film non dà conto del Napoleone dei libri di storia
ma di quello quotidiano e privato del confino all’isola d’Elba nel 1814.
Interpretato nella parte principale da Daniel Auteuil, “N.” ha come protagonisti
anche Elio Germano e una nuova Monica Bellucci, impegnata dopo molto tempo in
una parte comica.
Sul fronte indipendente incuriosce Piano 17 dei
Manetti Bros, costato appena 65 mila euro, esempio raro di miracle budget. Un
thriller tutto interni e adrenalina che ha convinto il pubblico del Festival di Courmayer lo scorso dicembre.
Di minore originalità e versato sul puro intrattenimento di costume pare
Il mio miglior nemico, sodalizio tra due generazioni della commedia
all’italiana, Silvio Muccino e Carlo Verdone. Tra cattiverie, intuizioni
sociologiche e buoni propositi ritorna un topos troppo frequentato del cinema
italiano contemporaneo: il conflitto tra caratteri opposti che alla fine si
scoprono affini e speculari.
abboffFATA DA HOLLyWOOD
Dopo l’abbuffata degli Oscar, da Hollywood arrivano poche idee e una
valanga di film medi, che si ostinano a spremere i filoni in voga e a
solleticare il loro unico pubblico di riferimento, gli adolescenti. E allora giù
a saccheggiare videogames con Doom (24 marzo), versione cinematografica di uno
dei più celebri “sparatutto”.
Fumetti con
V for Vendetta (17 marzo), da una bella graphic novel di Alan
Moore, che almeno per il tema (Londra sotto un regime fascista), sembra aspirare
a qualcosa di più della semplice illustrazione mirabolante (producono i fratelli
Wachowski di Matrix).
Vecchie icone con La pantera rosa
(24 marzo) che, a leggere il cast - Steve Martin nei
panni dell’Ispettore Clouseau e Jean Reno nel ruolo del suo aitante assistente
-, aspira al minimo sindacale.
Di THe ProducerS (17marzo) e ThE Constant
Gardener (3 marzo)
abbiamo già parlato lo scorso mese, il resto è pura accademia: ThE WeatheR
Man (10 marzo) di Gore Verbinski, con Nicholas Cage nei
panni dell’uomo delle previsioni del tempo e in tutta la gamma ristretta delle
sue espressioni sconsolate.
Stay - Nel labirinto della mente (3 marzo)
di Marc Forster, con Naomi Watts e Ewan McGregor, che rimescola ancora il
sottile confine tra psicopatia e “presenze”
ultraterrene, e
Proof – La prova (3 marzo) di John
Madden, una versione senile (Anthony Hopkins) di A Beautiful Mind.
Merita
almeno curiosità la strana collaborazione tra il muscolare Vin Diesel e un
grande vecchio come Sidney Lumet in Find Me
Guilty (24
marzo), un dramma giudiziario con un mafioso come showman protagonista.
All the
Invisible Children (3 marzo)
è lo sguardo di un gruppo di registi impegnati (Medhi Charef, Emir Kusturica,
Spike Lee, Katia Lund, Jordan e Ridley Scott, Stefano Veneruso e John Woo) sulla
sofferenza dei bambini nel mondo. Un film collettivo discontinuo e multiforme
che spazia da Napoli all’Africa, dalla Cina agli Stati Uniti ed è stato
realizzato con lo scopo di finanziare un fondo dell’Unicef.
IL FILm DEL MESe SECONdO BAZAR
Il film del mese (8 marzo), se ce la
farà ad uscire in qualche sparuta sala nelle grandi città, è MooLAadè di Ousmane
Sembène, grandissimo regista senegalese, che affronta il tema
dell’infibulazione, combinando folklore, satira e polemica. Molti documentari
hanno già affrontato l’argomento ma con un pietismo poco acuminato, Sembene ha
un “agenda politica” molto chiara ma non trascura l’estetica, la
caratterizzazione e la tecnica. Un esempio.
L’INCUBO DI DARWIN: UN DOCUMENTARIO-INKIESTA
SCONVOLGENTE
Dove si fa oggi la buona televisione? Al
cinema. Lo conferma uno sconvolgente documentario-inchiesta sul neocolonialismo
in Africa, L’incubo di Darwin.
In Tanzania, sulle rive dell’immenso lago Victoria, gli estremi collidono. Da un
parte: l’industrializzazione forsennata della pesca alla parca - un pesce
predatore dall’ottima carne che pullula da quando, a partire dagli anni
sessanta, è stato introdotto a forza nell’ecosistema del lago - è all’origine di
un massiccio e lucrativo traffico tra Africa, Europa, Russia e Asia. Dall’altra:
la popolazione indigena riversa in condizioni disperate, vittima sia delle
conseguenze perverse del traffico che di tutte le malattie che affliggono la
regione dei Grandi Laghi: aids, miseria, fame, prossimità della guerra.
Sulla base di questo contrasto e di un’infernale dinamica di causa ed
effetto, Le ombre di Darwin di Hubert Sauper mantiene un rimarchevole equilibrio
tra il docu-choc e l’oggettività della constatazione. La forza di questo
equilibrio? Esaurire rapidamente il metodo Michael Moore (la teoria del
complotto, l’ironia grassa durante la sequenza fotografica dell’aeroporto,
l’inchiesta un po’ cialtrona) per un rifiuto assoluto della compassione.
Il
filmaker, di cui si sente soltanto la voce over durante le interviste,
non compare mai in campo. E mai le domande oltrepassano lo statuto della
curiosità obiettiva, appena guidate dall’evidenza degli orrori che accadono sul
Lago Vittoria. Così i risultati dell’inchiesta emergono con una
chiarezza che si emancipa da ogni ombra di ambiguità o di manipolazione:
dal traffico di pesci a quello d’armi, dal superconsumismo occidentale alla fame
locale, dalla miseria sessuale alla barbarie. Potenza di un documentario che si
accontenta di rimanere costantemente allo stesso livello d’ascolto, senza il
minimo movimento di amplificazione esponenziale, con la semplice raccolta delle
testimonianze e il ricorso costante all’evidenza dell’incubo. Così gli effetti
di un darwinismo feroce non affiorano come principi artificiali che guidano il
racconto ma come i risultati obbiettivi del lavoro del regista.
Si impongono
come una sorta di luminosità fredda e terrificante, estranea a tutti gli affetti
e alle pulsioni naturali della regia. Si assiste semplicemente e con sconcerto
alla meccanica ghiacciata di una specie di neocolonialismo puramente economico, l’incubo
tranquillo di un terrore cieco, tanto più pernicioso quanto più appare
assolutamente razionale.
L'incubo di Darwin di Hubert
Sauper, in sala dal 3 marzo
iL RItorNO
dEL MACbeth: Da
COmprARE
Primo dei tre film
shakespeariani diretti da Orson
Welles (seguiranno Othello e il
Falstaff), Macbeth (1948) si distingue per la fedeltà alla sua origine scenica:
scenografia ridotta al minimo, movimenti di macchina dettati dagli attori… ma
per molti anni queste descrizioni sono state affidate all’intuito di chi lo ha
visto in copie tremende e malridotte. Per questo bisogna salutare con la giusta
eccitazione l’uscita in dvD
(per il mercato francese) di un’edizione finalmente degna.
Il film è
addirittura offerto in due versioni,
quella lunga voluta dal regista e quella corta imposta dallo studio. Affidando
la lettura del film a due specialisti di Welles, la Wild Side
testimonia che un approccio universitario serio può innalzare il livello medio
degli extra del dvd all’altezza dell’analisi saggistica, senza rinunciare alla
seduzione audiovisiva.
Due documenti rari completano il sommario: la
registrazione sonora della pièce, editata su disco da Welles nel 1940 e alcuni
frammenti filmati della messa in scena del Macbeth del 1936 con la compagnia del
Mercury Theatre. Sorprendenti
soprattutto i raffronti con quest’ultimo pezzo d’archeologia: ci sono alcune
inquadrature e alcune soluzioni d’adattamento (décor e scelta del montaggio) che
prefigurano il film realizzato dieci anni dopo.
Macbeth di Orson
Welles, Wild Side (www.wildside.com), euro
39,99